Chiamala se vuoi empatia. Saper ascoltare per farci ascoltare.

 Il concetto di empatia a volte è criticato: si crede che significhi mettersi nei panni degli altri per giustificare ciò che fanno, o per pura gentilezza e accondiscendenza. Mi sembra invece che l’empatia sia, certo, mettersi nei panni degli altri, ma per accogliere l’emozione anche senza capire, razionalmente, ciò che la origina. E’ il fondamento di relazioni positive, imprescindibile nel campo dell’educazione, perché consente un ascolto profondo che crea fiducia  e apre le porte alla comunicazione. È riconoscimento, parola che userò continuamente in questo testo, non necessariamente condivisione, accordo. In questo articolo metto a disposizione ciò che ho appreso e applicato nella mia esperienza di insegnante e di madre con profonda convinzione, anche se non sempre riuscendo: si sa che chi non sa fare insegna ….. Inserisco anche il link a due video con la dimostrazione di come avviene la comunicazione empatica o ecologica con i bambini. Infine mi piace richiamare il primo articolo del blog, Vietato rimproverare. Amate a vite storta, che considero il manifesto di questi principi.

Sono sempre stata interessata alla nonviolenza e, seguendo diversi corsi e attività, mi sono avvicinata alla comunicazione empatica. Questa consiste nel prendere confidenza con le emozioni entrando in “connessione” autentica con noi stessi e con gli altri. Si individuano così i veri bisogni e si può agire in armonia con i nostri valori. L’educazione che riceviamo non ci aiuta in questo: si basa sul senso del dovere e sul senso di colpa, contrari evidentemente alla libertà di essere ciò che siamo.

L’empatia serve prima di tutto  a noi stessi: se non siamo comprensivi con noi stessi , non riusciremo ad esserlo con gli altri. La mia generazione penso sia malata di senso di colpa. Incolparsi vuol dire non “volersi bene”. Bisogna invece perdere il sospetto e il giudizio sia verso se stessi, che verso gli altri, per farsi guidare dalla benevolenza: se uno fa qualcosa ha il suo motivo, che si basa sulla sua necessità specifica e personale. Questo è il presupposto per l’accettazione della diversità. A me piace chiamare “ecologica”, la comunicazione empatica, perché è pulita, trasparente e responsabile, priva di condizionamento e di  moralismo. Riconosciamo noi stessi e riconosciamo l’altro e l’altra, la differenza del punto di vista, le intenzioni positive, la ricerca di percorsi personali.

Nella mia esperienza di applicazione delle modalità di comunicazione empatica, ho ottenuto alcuni momenti di pura “grazia”, quando sono riuscita ad ascoltare o essere ascoltata a fondo. Si crea un senso di leggerezza e gratitudine. Soprattutto, si gestisce il conflitto costruttivamente: con le classi, gli studenti, i genitori, gli insegnanti, il figlio, i colleghi, il compagno….. Il conflitto non è sbagliato anzi è sano: si tratta di una contrapposizione di interessi o di necessità. Voler vincere, voler avere ragione è negativo. Dare empatia alla controparte significa riconoscere la legittimità e l’umanità della sua posizione, e creare la possibilità di essere riconosciuti allo stesso modo. Sentirsi di pari valore consente la comunicazione in un dialogo che non intende convincere ma solo chiedere una libera disponibilità. In questo articolo inizierò indicando a grandi linee alcuni dei principi della comunicazione fondata sull’empatia: si può iniziare provando a notare come pensiamo a noi stessi e provare cambiare il nostro discorso mentale su di noi, per poi provare con gli altri.

È importante evitare i concetti di giusto e sbagliato. I bisogni non sono sbagliati o giusti ma vanno soddisfatti, all’unica condizione di non nuocere agli altri e, possibilmente, nemmeno a noi stessi. Le categorie di  efficace, utile, inutile, dannoso, piacevole, spiacevole risultano più adatte a definire una scelta. Possiamo considerare le scelte “sbagliate”, come strategie inefficaci per rispondere ad un bisogno, oppure strategie che per qualcuno sono efficaci, anche se per noi non lo sono. Ancora meglio, si potrà eliminare il giudizio di “giusto e sbagliato”, tanto dannoso nella comunicazione e anche tanto ingannevole, tenendo conto del fatto che esso si basa sulla corrispondenza fra quello che facciamo o che fanno gli altri e i nostri valori. Sarà più opportuno allora esprimersi chiaramente, dichiarando i propri i principi in cui crediamo che ci fanno prendere una posizione diversa rispetto ad una scelta. In pratica il concetto che applichiamo è che la persona ha fatto ciò che di meglio poteva fare, date le circostanze, personali o contingenti e dati i propri valori. ”Devi, devo” possono essere sostituiti da  “puoi, posso, scelgo”: non siamo obbligati a niente. È  importante prendersi la responsabilità e, ad esempio con i figli, non obbligare, perché ciò è in conflitto con la responsabilizzazione. Bisogna essere capaci di ricevere anche i no dei figli e insieme trovare le risposte che soddisfino i bisogni loro e nostri, tramite strategie che non siano controproducenti.

L’ attribuzione di colpe, promozioni, meriti, punizioni, premi, è una modalità che non genera relazione, perché si appropria della veste del giudice che applica una legge. Pensiamo l’essere genitori come un ruolo e non come una relazione. Facciamo fatica a vedere chi educhiamo alla pari con noi nella sua umanità. Nella relazione c’è il rispetto, la fiducia, il riconoscimento reciproci. Tutti gli esperti e i professionisti della salute mentale che curano il disagio degli adolescenti e dei bambini individuano nella relazione la prevenzione e la cura, e nella mancanza di relazione l’origine del malessere. Di solito come educatori ci poniamo a come quelli che sanno di più, perché abbiamo vissuto di più, ma non cogliamo che nessuno può sapere quali siano i bisogni veri e profondi dell’altro, dell’altra, se non  ci si mette in connessione autentica, senza prevenzioni, senza giudizio, in ascolto aperto a qualunque emozione venga dall’altra parte.

Le emozioni spesso ci intimoriscono. Pensiamo che ci siano emozioni sbagliate: depressione, odio, invidia, a volte persino la paura, le censuriamo in un bambino come in noi stessi. Invece non esistono emozioni o sentimenti sbagliati, perché sono l’espressione della nostra umanità. Chi odia potrebbe vivere un bisogno di  amore, chi ha paura, di sicurezza, chi ha invidia, di riconoscimento o di successo. Ogni scelta che noi facciamo, se non è condizionata dalla volontà di compiacere qualcun altro, risponde alle nostre necessità vitali. Il bello è che ognuno è diverso, per cui quello che a me crea ansia a te può creare divertimento. Scoprirlo vuol dire entrare in relazione profonda e aprirsi al mondo dell’altro, dell’altra e consentire loro di realizzarsi.

 

 

 

Foto di Josh Willink

 

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