Non riesco a scrivere del merito in un’accezione positiva. Ho provato a pensarci perché anche persone che stimo hanno dichiarato, ma secondo me non dimostrato, l’utilità di tale categoria per valutare l’operato delle persone. Io sono giunta ala conclusione che, invece, sia una forma retorica che serve a giustificare atti di esclusione. Il suo concetto implica che la sua mancanza sia responsabilità dell’individuo e che ciò sia riprovevole. Per esistere, il merito, va contrapposto al demerito: ha senso solo in questa dicotomia. Il problema è che il riferimento del giudizio è astratto, nel mito di un’ovvia universale validità.
La selezione effettivamente richiede una valutazione “di merito” inteso come competenza specifica, non come categoria morale. Tante volte nel nostro paese tale criterio viene ignorato: il nepotismo, le raccomandazioni, la corruzione fanno enormi danni. La parola merito, allora, comunica un’’idea di rigore e di serietà, con un effetto rassicurante. A me suona invece inquietante proprio perché si sostituisce al termine corretto, che è “competenza”.
Non trovo realistico pensare che nella scuola si possano creare parità di condizioni alla partenza per rendere possibile un’equa distribuzione del merito. Come si fa ad appianare le differenze fra chi ha avuto esperienze di viaggi, biblioteche, cinema e chi non ne ha mai avute? Come si fa con la differenza di chi vive in una famiglia dove non si parla italiano? Con le differenze di capacità di apprendimento? Con la presenza di forme di disagio emotivo, psicologico, sociale, di patologie, di disabilità? Con le differenze di stile di vita e personali?
La scuola non è una gara. Gli immeritevoli, poi, dove finirebbero? nella discarica dell’emarginazione? Meglio invece che tutti stiano a scuola più a lungo possibile, evitando la dispersione, includendo, facendo in modo che ognuno trovi la propria eccellenza. Lo scrittore Alessandro D’Avenia dice che il ruolo dell’insegnante è far scoprire a ognuno quello che sa fare meglio di chiunque altro, quello, aggiungo, di cui la comunità non può fare a meno. E questo non è uno sforzo che merita lodi, ma un privilegio da raggiungere, un dare e un avere: io ti do perché tu possa poi fare la tua parte al meglio, nel mondo, per gli altri oltre che per te.
Non è vero che a parità di impegno tutti raggiungano gli stessi obiettivi. È invece secondo me auspicabile che ognuno investa tutto l’impegno che ha, non solo quello minimo richiesto. E questo mi pare non venga stimolato dai premi, ma dalla dignità che per natura ognuno possiede e che deve anche essere educata. La scuola che riesce a favorire un buon equilibrio tra dedizione al benessere comune e rispetto di sé stessi e della propria unicità, fa un buon lavoro. Quella che annulla la personalità, in nome del merito, mi sembra voglia una società altamente manipolabile.
Chi crede nel merito si dice contrario all’appiattimento dell’egualitarismo. Anche io sono contraria all’appiattimento. Le differenze sono ricchezza: chi parla un’altra lingua in famiglia, renderà meno bene in italiano, ma possiede il patrimonio di una seconda madre lingua. Penso siamo d’accordo che non ha più merito chi scrive bene in italiano perché nativo. È però auspicabile una diversa valutazione del prodotto ben fatto, anche se non del merito, e di quello più carente, anche se non per demerito. È necessario che ognuno riconosca il proprio livello di competenza su ciò che fa, non sulle qualità personali.
Gli esperti ci sollecitano ad educare all’insuccesso, che va accettato proprio perché non è il fallimento della persona, ma è il riconoscimento dei propri limiti. Apprendere ad autovalutarsi fa parte del percorso per la costruzione dell’autostima, che consente di affermare il valore dell’unicità di ognuno. Laddove è corretto rimuovere gli ostacoli per mettere tutti in grado di dare il meglio di sé, è sbagliato invece alleggerire lo sforzo, semplificare la strada, evitare la sconfitta, regalare l’apprezzamento positivo, non dare modo di guadagnarsi con fatica la propria posizione. Occorre costruire la consapevolezza che NON tutti possono raggiungere gli stessi livelli e risultati, ma che ognuno ha valore indipendentemente da questo. Forse questo potrebbe essere l’unico spazio di applicazione del principio del merito: quello che riguarda il senso di soddisfazione personale, di orgoglio per le proprie conquiste, il giudizio personale, non degli altri, su noi stessi.
Questo non vuol dire, come ho detto sopra, creare condizioni di parità di partenza, ma creare le diverse migliori condizioni indicate per ogni differenza. In concreto, se non fornisco a una persona nonvedente gli ausili per studiare autonomamente, non potrò mai verificare la sua preparazione nello studio. Lo stesso con una persona con dislessia: qui sembra meno intuitivo, ma se non consento di operare con l’utilizzo degli strumenti più adeguati alle sue caratteristiche, non potrò mai valutarla per ciò che può veramente fare, come non potrei valutare la comprensione del testo di una persona miope se non le consentissi di utilizzare gli occhiali.
Sono anche convinta che l’idea di valorizzare il merito premiando alcuni insegnanti, potrebbe avere effetti tragici. Chi può valutare oggettivamente chi è innovativo, più visionario, più geniale? Ci sono molti modi di mascherare il demerito con un’apparenza prestigiosa. L’individuazione di pochi meritevoli, crea una massa di immeritevoli a rubare lo stipendio. A chi verrebbero assegnati poi, questi insegnanti incompetenti?
I dirigenti, quelli scolastici e quelli della pubblica amministrazione, secondo me. non devono tollerare che qualcuno prenda uno stipendio senza merito. Invece di limitarsi a premiare pochi, fotografando l’inerzia, dovrebbero favorire la cooperazione tramite la quale la professionalità si spalma e si diffonde, come il liquido nei vasi comunicanti, su tutta la comunità, arricchendo il lavoro per il vantaggio di tutti. Mettere insieme il massimo dello sforzo e della specializzazione di ognuno nel gruppo, fa raggiungere vette molto più alte di quelle che può raggiungere il singolo. Ciò consente anche di valorizzare e mettere a frutto le abilità divergenti che da sole non otterrebbero esiti apprezzabili, ma che, se inserite in un contesto collaborativo, arricchiscono il risultato. Tutto il contrario dell’appiattimento, è una modalità che porta invece a esiti sempre diversi e al massimo delle possibilità.
Queste sono le mie sofferte, vi assicuro, riflessioni in merito al merito: ho cercato con tutte le mie forze di trovarne aspetti positivi, senza riuscirvi.
se le persone non sono, per malaeducazione, consapevoli di una propria dignità, allora rimangono purtroppo i quiz a premi a stimolare l impegno.
Bravissima centrata la questione: “merito” è moralismo. “Competenza” è etica.
E guarda caso questi che predicano da anni il merito e mettono insieme istruzione con merito sono degli assoluti incompetenti.
Perché il merito solo connesso all’istruzione? e non un bel Ministero al Merito per tutto. È sufficiente questo per scoprire la strumentalità del merito sbandierato sconsideratamente.