Vietato rimproverare: occorre validare, invece.

Ho trovato molto utile il webinar dal titolo “Emozioni e sofferenza interiore: dobbiamo preoccuparci?” che  si è tenuto Giovedì 15 Dicembre 2022. L’evento è stato condotto dalla Dr.ssa Ilaria Pietrafesa, educatrice e formatrice, e dal Dr. Rachid El Khatabi, psicologo e psicoterapeuta, e organizzato Servizio Pari Opportunità, Giovani e Sport U.O. Nuove Generazioni del Comune di Ferrara.

Una brevissima introduzione ha delineato le caratteristiche tipiche dell’età adolescenziale e i dilemmi educativi dei genitori.

Alcuni dei comportamenti tipici in adolescenza sono la maggiore mutevolezza d’umore; la maggiore coscienza di sé, maggiore sensazione di agire in prima persona, maggiore attenzione al proprio aspetto fisico; sperimentazione di droga, alcol e tabacco;  maggiore sensazione di invulnerabilità che può portare a un incremento della ricerca di sensazioni forti e a correre dei rischi; maggiore tendenza a perdere tempo; maggiore conflittualità tra genitori e figli; difficoltoso passaggio dalle scuole medie al liceo.
I dilemmi dialettici oppongono minimizzare i problemi comportamentali a esagerare i tipici  comportamenti adolescenziali; troppa permissività a troppa severità; promuovere l’autonomia a favorire la dipendenza.

Quando è stata data la parola ai genitori, per riscontrare se si avesse esperienza di quello che era stato detto, hanno parlato solo le mamme, che hanno riferito le loro osservazioni preoccupate dei comportamenti appena descritti nella relazione iniziale. È stata una ovvia sequenza di scene abituali e di toni preoccupati , di dichiarazioni di impotenza nell’ottenere ravvedimenti rispetto a odine nella camera, uso dei videogiochi, perdere tempo, dormire a orari inadeguati, saltare la scuola, fare cose sciocche e inutili eccetera. E nemmeno la severità serve.

Il primo consiglio: quando c’è un problema fermarsi, prendere tempo. Alzi la mano chi lo fa: di solito prendiamo di petto quelli che crediamo problemi e non ci diamo pace finché non li risolviamo. Peccato che, a volte, scopriamo dopo che abbiamo mirato all’obiettivo sbagliato.
Un’altra indicazione è stata di chiederci perché una cosa ci preoccupa: ad esempio il disordine della camera. È proprio quello il problema? Cosa vogliamo ottenere effettivamente? C’è bisogno di altro invece? È fondamentale chiedersi sempre perché vogliamo che nostro figlio cambi un comportamento.

In realtà quello di cui i genitori si sono lamentati sono le caratteristiche che appartengono all’età, comportamenti che sono per loro indispensabili perché riguardano un compito, il loro compito evolutivo. È  importante che siano diversi da noi: tengono la camera nel caos perché sono diversi. La dottoressa ha creato un parallelo suggestivo: vi piacerebbe che un’amica entrando a casa vostra vi chiedesse perché tenete i mobili così, perché scegliete quei colori eccetera? I figli sono un’altra persona e hanno il compito di differenziarsi per poi separarsi. La dottoressa ha sottolineato che gli specialisti si preoccupano, invece, se un ragazzo è troppo simile ai genitori. Per nascere c’è bisogno di soffrire anche l’adolescenza è una nuova nascita quindi comporta sofferenza.

Abbiamo poi preso confidenza con il concetto di validazione: significa comunicare a nostra figlia che quello che fa ha senso, anche se non ci piace. Non significa approvare un comportamento disfunzionale, perché validazione è diverso da approvazione. Dicendo che comprendiamo, non sminuiamo lo stato d’animo e la situazione ma, invece, cogliamo le emozioni, che è diverso dall’ accettare il comportamento sbagliato. Questo lo si fa ascoltando. Per ascoltare in modo attivo occorre mantenere il contatto visivo, fare attenzione al nostro linguaggio non verbale, perché non sia in contraddizione con ciò che comunichiamo, non distrarsi. Bisogna osservare ciò che il figlio prova in quel momento e fare da specchio. Ma non si deve credere di sapere a priori cosa stia provando. Bisogna chiedere e farselo dire, poi rimandare ciò che si è percepito facendo una domanda: è così che ti senti? Occorre empatia e mettersi nei suoi panni. Questo non può esimerci, però, dal dare risposte anche nei fatti. Un altro  simpatico paragone ce lo spiega: non basta che un vigile del fuoco esprima empatia per i sentimenti di chi soccorre, ma deve anche agire.

Quando non capiamo qualcosa e questo ci preoccupa, dovremmo fare come se fossimo con un amico che ha fatto un viaggio: fare le stesse domande, tante, a nostro figlio, con la stessa curiosità e lo stesso  interesse. Fare questo anche sulle esperienze a noi sconosciute e su quelle che magari disapproviamo. Ad esempio sui videogames si può chiedere con chi gioca, come funziona, come si fa per raggiungere i risultati, cosa succede, eccetera. Dobbiamo sforzarci di trovare altri modi per approcciarci quando quelli sperimentati non funzionano.

Cambiamo prospettiva e usciamo dal problema, dal figlio problema. In quanto persone hanno tanto altro che non i difetti: serve cominciare a vedere il positivo mettendo da parte il negativo. Lo si può fare anche rovesciando  la visuale. Bisogna essere solidali, vicini senza sostituzione e senza cercare o offrire soluzioni. È nella solitudine dell’elaborazione di un dramma che si diventa adulti se no si rimane sempre figli. Rimaniamo nell’atteggiamento dell’osservatore, che significa stare più attenti ma intervenire meno e assistere rispettando la sofferenza dell’adolescenza. Questo ha un grande valore.

Concludo ripetendo queste parole: rispetto e dramma. Mi sembra che il significato di questi consigli sia di non minimizzare, di spostarci dal centro della scena per lasciare spazio al  protagonismo dei nostri ragazzi e ragazze, di incuriosirci, di resistere alla visione della sofferenza, senza tentare di evitarla a noi o a loro, con la fiducia che da questa trasformazione nascerà qualcosa di inaspettato che noi non possiamo immaginare.

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4 thoughts on “Vietato rimproverare: occorre validare, invece.

  1. Grazie Daniela per la chiarezza e concisione. Ho però un dubbio :all interno della pratica di validazione ci può stare una aperta disapprovazione di un comportamento?

    1. La mia non è una risposta da esperta, ma basata su quello che ho imparato tramite la comunicazione empatica di Marshall Rosenberg. Se la disapprovazione non è un rimprovero, cioè se non si attribuisce colpa, la disapprovazione può starci, ma rimane comunque un’opinione, a meno che il comportamento non sia aggressivo o violento. Ad esempio se mio figlio non si alza dal letto e non va a scuola, secondo me la disapprovazione non ci sta. La validazione riguarda come si sente (“fammi capire cosa succede, come mai non vai a scuola? come ti senti? ” ) ma più che disapprovazione io esprimerei preoccupazione per la sua salute e per il suo “benessere scolastico”, ma senza pensare che lui stia sbagliando necessariamente. In questo caso la disapprovazione sarebbe in contrasto con la validazione di quello che prova. Successivamente, passato il momento di crisi si dovrebbe dialogare per aiutare il figlio a trovare la soluzione più adatta a lui rispetto alla scuola: come è stato detto all’incontro, non è detto che quello che noi pensiamo sia la situazione che nostro figlio sta vivendo. Potrebbe essere che parlando ci rendiamo conto che alla fine non andare a scuola sia la scelta giusta, ad esempio se ci fosse stato del bullismo nei suoi confronti. La disapprovazione la userei solo se mi rispondesse sgarbatamente o urlando e solo per questo o, magari, se si trattasse di uso di sostanze o comportamenti dannosi.

  2. Letto il tuo resoconto, Daniela.
    Molto interessante!
    Le cose dette, e scritte, appaiono ovvie ma chi le fa quando ce n’è bisogno?

    1. Appaiono ovvie dopo che le hai sentite, però, vero? In realtà bisognerebbe agire sempre nel modo indicato, con tutti, ad esempio anche con il proprio marito o moglie. Ciò toglierebbe la rabbia, la sopraffazione e la passività, il rancore, dalle relazioni e si comincerebbero a eliminare atteggiamenti quali il razzismo, la misoginia, l’omofobia, tutto. Il problema è che la nostra educazione ci inculca il senso di colpa e il senso di giusto e sbagliato, che ci impediscono di “validare” noi stessi e gli altri. Io ho trovato un utile strumento nella comunicazione empatica insegnata da Marshall Rosenberg.

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